Intervento di Un ponte per… sul progetto dell’hub militare aeroportuale alla I Commissione consiliare, Comune di Pisa, 19 e 26 gennaio 2011
Il comitato toscano di Un ponte per, che ha partecipato alla scorsa edizione di Pisa città per la pace, da settembre 2010 ha sollecitato una posizione critica sul progetto dell’hub militare da parte di questa amministrazione comunale. Il Coordinamento No Hub, di cui facciamo parte, è stato l’unico organismo in città che abbia organizzato dibattiti pubblici su questo progetto, compito che secondo noi spettava alle autorità locali. Come già sottolineato, la città ha bisogno di chiarezza circa l’impatto del progetto sull’ambiente e sulla salute dei cittadini, ma Pisa come “città per la pace” non può esimersi da una valutazione politica del progetto, che a noi sta particolarmente a cuore.
La nostra associazione svolge infatti progetti di cooperazione internazionale in zone di conflitto, anche in partenariato con Comune e Provincia di Pisa e altre istituzioni regionali, in paesi come l’Iraq in cui le missioni militari italiane sono state vissute dalla stragrande maggioranza della popolazione locale come un’occupazione illegittima e violenta. Al di là del ruolo specifico avuto dalla missione Antica Babilonia nell’ambito della più ampia operazione militare, l’Italia in quel frangente condivideva le responsabilità politiche e i crimini commessi dalle truppe della coalizione.
L’assessore Marialuisa Chiofalo è venuta a dicembre 2010 con noi in missione nel Kurdistan iracheno proprio per confermare il sostegno del Comune di Pisa a chi cerca di individuare percorsi nonviolenti di trasformazione del conflitto. Da alcuni mesi inoltre stiamo dialogando con la Provincia di Pisa e l’Azienda Ospedaliera Pisana per sostenere l’ospedale di Falluja, città in cui c’è un crescita abnorme di tumori e nascite di bambini malformati a seguito delle armi chimiche usate impropriamente dalle forze multinazionali sulla città. La partecipazione a questi progetti da parte delle istituzioni di Pisa non è secondo noi compatibile con una posizione acritica sulle missioni militari italiane all’estero, poiché Pisa ne diventerà la rampa di lancio.
Al di là dei giudizi che ciascuno può dare sull’opportunità di intervenire militarmente per la risoluzione dei conflitti, chi lavora in Iraq e Afghanistan può argomentare facilmente che le missioni multinazionali in questi paesi non sono operazioni di mantenimento della pace. Il peace-keeping consiste in quelle attività volte a prevenire, moderare e/o porre fine ad una ostilità e proteggere la popolazione civile mediante l’intervento imparziale di una terza parte – la forza multinazionale – allo scopo di restaurare e mantenere la pace. Chi ha voluto l’aggressione militare di Iraq e Afghanistan non è ovviamente terza parte. Chi accetta “danni collaterali” ingentissimi in termini di vite civili per bombardare dal cielo con i droni villaggi e centri abitati in cui si rifugiano combattenti, ed è disposto ad usare armi chimiche proibite dalle convenzioni internazionali, non può nascondesi dietro la retorica delle operazioni di pace.
Emergency potrebbe raccontare meglio di noi quanto accade oggi in Afghanistan. Per quanto riguarda l’Iraq vi ricordo solo un episodio, quello della battaglia dei ponti sull’Eufrate avvenuta nell’agosto 2004 a Nassiryia, in cui le forze italiane del reggimento dei Lagunari combattevano le forze del Mahdi. In quella battaglia che fece decine di morti (15 secondo i militari, 150 secondo fonti locali), perirono anche molti civili tra cui alcuni che si trovavano in un’ambulanza, crivellata di colpi: una donna incinta, la madre, la sorella e il marito. I tre militari italiani responsabili dell’attacco avevano affermato di aver colpito un furgone senza insegne né dispositivi luminosi, dal quale erano scesi all’improvviso uomini armati che avevano iniziato a sparare in loro direzione. La presenza di un’ambulanza era stata sempre smentita dal comando del contingente italiano e dall’allora ministro degli esteri Franco Frattini. I tre lagunari accusati di uso aggravato delle armi contro ambulanze vennero poi assolti nell’udienza preliminare del processo celebrato dalla Procura militare di Roma. Purtroppo, la tesi ben diversa di testimoni e medici iracheni è ora confermata da documenti ufficiali statunitensi. Secondo quanto si legge in due report dell’esercito americano diffusa online da Wikileaks, a essere colpita nel corso degli scontri tra i miliziani dell’Esercito del Mahdi e i soldati italiani, posti a difesa dei tre ponti sull’Eufrate, fu un’ambulanza dalla quale non è partito alcuno sparo. Il report conferma numero ed entità delle vittime civili che si trovavano all’interno del mezzo.
La verità è sempre la prima vittima della guerra, e le nostre missioni militari vanno spesso – appunto – in guerra. Per “vincere i cuori e le menti” della popolazione locale, che giustamente teme le invasioni militari, i contingenti spesso si dedicano agli interventi umanitari, compiendo un’ulteriore e grave violazione. Quando il nostro primo cittadino sottolinea con orgoglio che i militari italiani partiranno da Pisa per interventi di carattere umanitario forse non sa che tali interventi dovrebbero essere svolti da organizzazioni civili, nella stragrande maggioranza dei casi. Le 29 organizzazioni umanitarie attive in Afghanistan hanno ricordato due mesi fa alla NATO (Briefing paper Nov. 2010, “Nowhere to turn. The failure to protect civilians in Afghanistan”, pag. 16-19) che gli aiuti (aid money) devono essere demilitarizzati per non mettere a rischio la popolazione che ne usufruisce e le organizzazioni umanitarie che offrono servizi analoghi secondo principi di indipendenza, neutralità e imparzialità. Le Linee Guida stilate nel 2008 per l’interazione tra attori civili e militari in Afghanistan, firmate dalle forze ISAF e dall’ONU oltre che dalle agenzie non governative, stabiliscono che solo “in circostanze eccezionali e come ultima opzione, risorse militari possono essere utilizzate per portare aiuti umanitari”. Invece i progetti umanitari sono stati adottati dall’ISAF con obiettivi di contrasto degli insorgenti (counterinsurgency) e la distinzione tra attori civili e militari non è più chiara agli occhi della popolazione afghana né dei combattenti, ponendo quindi in pericolo le agenzie umanitarie e gli utenti di tali scuole, ospedali, servizi.
Ai cittadini italiani rimangono pochi mezzi per difendere la nostra Costituzione, che ripudia la guerra. Come ottenere che l’Italia partecipi a missioni di peacebuilding civile, e nei casi di estrema necessità missioni di peace-keeping sotto comando o mandato ONU, non missioni di guerra per interessi NATO? Non rimangono che atti simbolici ma significativi di disobbedienza civile alla guerra, come quello di dichiarare indisponibile il territorio pisano per ospitare l’hub militare, anche se non ne abbiamo l’autorità.
Nel 1961 il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, per sostenere gli obiettori coscienza al servizio militare organizzò la proiezione del film di Autant Lara “Tu ne tueras pas” (Non ucciderai) vietato dalla censura e per questo finì sotto processo. Perchè la politica delle amministrazioni locali, quella vicina ai cittadini, non sceglie ancora, nel nuovo millennio, di esprimere con coraggio i valori che la gente comune sente con forza? Pace e diritti umani non possono rimanere immagini astratte nel regno della retorica. Per questo, la posizione che il Consiglio comunale e la giunta adotteranno in merito all’Hub militare sarà per noi dirimente per scegliere se continuare a confrontarci e collaborare nell’ambito del laboratorio Pisa città per la pace.
Comitato Toscano di Un ponte per…
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