Tutte le basi Nato saranno potenziate e l’Hub toscano svolgerà un ruolo chiave per le azioni in Libia

Liberazione 26/03/2011, pag 7
Andrea Montella

La data scelta per comunicare l’inizio dei lavori dell’Hub di Pisa è stato il 2 agosto: proprio nell’anniversario della Strage alla stazione di Bologna, il maggiore Giorgio Mattia, portavoce della 46ma Brigata Aerea che gestisce l’aeroporto pisano, ha affidato alla stampa che Pisa diventerà «riferimento per tutte le forze armate che avranno bisogno di spostarsi per via aerea per tutte le missioni nei teatri internazionali» e «sarà costruita anche una struttura ricettiva che potrà movimentare fino a 30mila uomini perfettamente equipaggiati, in un arco di tempo di almeno un mese» diventando così il più grande aeroporto militare del Mediterraneo.
Il giorno successivo, all’annuncio, l’Aeronautica ha pubblicato il bando per la prima “tranche” di lavori da 6 milioni di euro, scavalcando anche il ministro della Difesa che ha portato l’Hub in discussione in Parlamento solo il 30 settembre.
Immediato, invece, il plauso del sindaco del Pd, Marco Filippeschi, che ha dichiarato di considerare l’Hub un onore per la città e di apprezzarne «anche le possibili ed interessanti ricadute occupazionali».
Ricadute occupazionali che sono state smentite sia dai militari ricevuti in audizione dal Comune, che dai fatti di questi giorni allo scalo di Trapani-Birgi: Trapani è stato chiuso ai civili perché utilizzato per le operazioni militari verso la Libia. Lo stesso potrebbe succedere a Pisa: il Galileo Galilei, con 4 milioni di passeggeri l’anno, è il più importante scalo aereo della Toscana, ma è “ospite” dell’aeroporto militare Dall’Oro. Se dovrà far transitare 30mila soldati al mese «perfettamente equipaggiati» verso scenari di guerra, i turisti potranno scordarsi di partire da Pisa. E dovranno andare a casa anche i dipendenti civili, primi tra tutti i precari, che costituiscono una percentuale sempre maggiore tra gli occupati degli aeroporti.
Ma c’è dell’altro: l’aeroporto di Pisa è collegato al porto di Livorno dal canale navigabile dei Navicelli, che attraversa Camp Darby, 1.000 ettari di insediamento statunitense nella pineta costiera, il più grande deposito di armi del Mediterraneo e il più fornito al di fuori degli Stati Uniti, quello che ha alimentato i bombardamenti sul Kosovo e che sta attualmente rifornendo l’attacco alla Libia, anche se non compare tra le strutture coinvolte, come se si volesse tenere in sordina l’attenzione su questa base.
I pisani non sono stati ad ascoltare i militari in silenzio, ma hanno organizzato un coordinamento No-Hub che svolge una continua attività di sensibilizzazione e di mobilitazione tra i cittadini. Il No-Hub ha presentato in Comune un corposo dossier (consultabile su HYPERLINK “http://nohub.noblogs.org/” http://nohub.noblogs.org/), portando i consiglieri a conoscenza di molti dati sui rischi ai quali l’Hub espone la città, dall’aumento delle polveri sottili al rischio di incidente per i «materiali pericolosi» trasportati – fino a 12mila tonnellate al mese – come indicato da Roberto Speciale nella relazione alla Commissione Difesa della Camera, nella quale ha specificato che «la struttura, una volta realizzata, potrà essere messa a disposizione della Nato per supportare i flussi di materiale e personale in caso di crisi internazionali».
E’ quest’altro aspetto che il Coordinamento sottolinea: il ruolo giocato dall’Hub rappresenta un pericolo per tutti. Il Nuovo concetto strategico della Nato stabilisce che occorre investire meno nelle forze militari statiche e di più nelle forze militari mobili, in grado di essere proiettate rapidamente fuori dal territorio dell’Alleanza.
In questa ottica tutte le basi Nato in Italia sono in fase di potenziamento e l’Hub militare di Pisa svolgerà un ruolo chiave, non nella funzione difensiva prevista dalla Costituzione. Riuscire a muovere in un mese dai 30mila soldati e avere degli stoccaggi di armi della portata di quelli di Camp Darby, ci ha trasformato in uno Stato che fa dell’aggressione la base della sua politica estera. In questo momento stiamo esportando quello che è diventato il nostro “modello di democrazia”, e se questo è il prodotto che esportiamo che cosa è successo al nostro interno?

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